Il Blog di Anna Bruno

Eccoci qua. Solo qualche mese fa (ricordate? Niente educazione alla bellezza) scrivevamo, scontenti e sfiduciati sui nostri ultimi governi che avevano, tra le altre cose, sottratto alla scuola, le ore di storia dell’arte, materia ritenuta inutile, da tempo libero. Eppure la scuola, sono pochi, pochissimi a ricordarlo, nasce proprio come luogo in cui veniva “speso il tempo libero”, dove si discuteva di filosofia e di scienza, di matematica e di arte, dove si praticava il piacere della lettura e la gratuità dello scambio di opinioni, si sviluppava la capacità di discernimento tra il bene e il male. Un luogo dove si faceva storia e politica e dove, al contempo, rilassatezza, otium e libero pensiero proliferavano… Per non parlare dell’arte della socializzazione e quella della conversazione.

Oggi la scuola ha perso tutto questo, ha perso il suo significato originario di gymnasium (palestra nel vero senso della parola) perché menti e animi dispiegassero le ali e presto fossero in grado di volare da soli, un luogo di educazione alla libertà e non di costrizione, come dovrebbe essere qualsiasi luogo nel quale si fa cultura. La vediamo invece invasa dalla “Didattica”, e ancor peggio, da un metodo arrivato da lontano, studiato dai Gesuiti di Boston per noi, perché i nostri fanciulli si preparino ad essere operatori di mercato piuttosto che liberi pensatori. Parlo del metodo invalsi, naturalmente, che rende per alcuni versi il soggetto una macchina operante nella velocità e per la quantità, piuttosto che una persona di “gusto”, ricca di un sapere intimo che abbia sapore!… Quel gusto che ha bisogno dei suoi tempi perché si affini, di lunghi tempi che richiedono impegno, pazienza e lentezza.

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E allora, certo che siamo contenti, contenti che  il neo-governo abbia almeno fatto un passo indietro per ridare alla scuola, il 28 maggio scorso, le sue dignitose ore di storia dell’arte. Un protocollo di intesa siglato tra il ministero dei Beni Culturali e il ministero dell’Istruzione. Ma attenzione, vi prego, non cantiamo vittoria! Questo ovviamente non basta a dire che sia stata fatta giustizia all’arte e alla sua storia. Serve ancora dell’altro perché i cittadini possano sperare di acquisire quello che forse questo paese non ha mai avuto per questioni storiche e culturali: una coscienza collettiva, capace di difendere e coltivare il proprio bello.

La formazione di questo tipo di coscienza, deve partire dalla scuola sì, ma – come in un qualsiasi lavoro di squadra – questo lavoro educativo deve poter esser concepito in concerto con altri luoghi detentori del sapere e del bello, quali musei, biblioteche, istituti di ricerca e gruppi associativo-culturali alternativi. Insieme, tutti questi luoghi, dovrebbero partire da se stessi e iniziare a rivisitare ognuno il proprio modo di proporsi, perché si garantisca più visibilità a ciò che essi contengono,  i testi per le biblioteche e le opere d’arte per i musei ad esempio, piuttosto che porsi loro, come fanno, al centro dell’attenzione e magari con un nome astratto e ridondante (Maxxi, Macro ecc.). Dovrebbero al contrario privarsi di questo noioso e banale bisogno di autocelebrazione e tornare invece ad essere luoghi attivi, vivaci e liberi dall’assillo della “conservazione”.

Luoghi dove si sviluppa scambio  di idee e dove il contatto con il proprio contenuto (libro, opera d’arte o altro) si faccia empatico e non passivo o, peggio, astrazione. Bisognerebbe ridare dignità al visitatore, smettendo di pensarlo come possibile “vandalo” perché “ignorante” e cominciare a viverlo non più come “fruitore”, termine che lo vede già soggetto passivo in sé, ma come soggetto attivo, partecipante, con un suo modo di pensare, di sentire, di esprimersi, con una propria capacità di emozionarsi e di vedere, così, liberamente. Del resto, un testo, l’autore lo scrive non perché lo si conservi o, peggio, perché lo si faccia strumento di poche mani o menti detentrici del sapere, ma perché altri soggetti desideranti possano leggerlo e abbiano la possibilità di condividerlo o di opporvisici . Così come un’opera d’arte, ad esempio un dipinto, il pittore lo realizza perché altri possano goderne, rimanerne  indifferenti o addirittura disgustati. Le icone, gli artisti russi, le realizzavano perché ci si pregasse davanti, perché le si vedesse davvero e vederle davvero significava dar loro un valore emotivo, prima ancora che intellettuale.

I curatori della conservazione potrebbero certo obiettarmi che il rischio è che questi oggetti di valore vadano incontro all’usura. Ma mi chiedo, chi non va incontro all’usura? Anche noi umani  andiamo incontro all’usura del tempo (che non vuol dire danneggiare a bella posta). Questo è il contraltare del vivere, non ci resta che accettarlo se non vogliamo rimanere a casa, ben conservati e dimenticati… Al tempo delle icone, alla conservazione non ci pensava nessuno. L’opera era lì perché tutti ne facessero l’uso dovuto, e perché tutti potessero arricchirsi del segno che quest’opera avrebbe lasciato in loro e in maniera indelebile. Solo così si rendeva memoria da trasmettere ai posteri. E allora forse  la questione è: conservare così come stiamo facendo, ha davvero e ancora senso? Non so. Il paradosso è che se, da una parte, esiste l’assillo della conservazione, dall’altra i politici spostano le opere o usano i luoghi che le ospitano, a loro piacimento e per loro propaganda politica o personale.

Per non parlare delle mostre che si organizzano (troppo spesso scadenti, ma ben commercializzate) per portare massa in questi luoghi e davanti a certe opere. E che senso ha una notte bianca ai musei, dove la massa è indotta ad andare come pecore, piuttosto che come soggetti desideranti dell’arte? Musei, poi, come gli Uffizi o i musei vaticani, sembrano ostinati nell’ “usare o abusare” del loro ormai “nome mito” nell’immaginario universale, e pur non avendo sistemi di sicurezza o di controllo della temperatura adeguati, si aprono ad una quantità inaudita di gente, un fiume in piena che scorre e che delega il proprio occhio a macchinette fotografiche onnivore, e piuttosto che educare all’arte, inducono il “fruitore” ad una sempre maggiore anestetizzazione  delle emozioni rispetto all’opera che si ritrovano davanti… passando.

I musei, tutti poi ultimamente, gareggiano e si affannano in attività laboratoriali per bambini, denominate a volte con termini d’effetto, come ad esempio “baby parking” (termine su cui indurrei ad una sana riflessione), conferenze su ogni tipo di argomento, dove la presenza limitata vede per lo più un pubblico anziano, e visite guidate condotte da guide “colte”, a volte troppo concentrate sul proprio esporre davanti a gruppi che possono anche raggiungere le 60 unità, guide bene educate e sorridenti, dotate di banderuole numerate o in divise più o meno scure che levano loro personalità, se non identità, e trasformate in ripetitori che camminano.  Che  senso ha tutto questo? Dove ci stiamo dirigendo? Cosa ci può guadagnare la coscienza collettiva? Forse bisognerebbe fermarsi un attimo.

Perché quello a cui stiamo assistendo in realtà è un allontanamento emotivo e inconsapevole  che si allarga a macchia d’olio rispetto al bello. E intanto come un boomerang, il bello si assottiglia, giorno dopo giorno,  confuso sempre più col brutto che invade e sovrasta… ma i nostri occhi spenti non sono più capaci di vedere e distinguere!… Troppi ragazzini non entrano più nei musei già a dieci anni, perché ormai liberi di dire “no” ai propri genitori, e sempre più anziani che non avendo altro da fare, scelgono di lasciarsi trascinare dalla guida di turno nel suo forbito racconto. Mentre l’opera d’arte così trattata, perde pian piano la sua aura vitale:  di poter restare da sola davanti al proprio esploratore, e a lui soltanto, poter comunicare. Quanto disappunto, son sicura, proverebbero Michelangelo e  Botticelli nel constatare che le loro opere d’arte son divenute ormai  “Indiscutibili Opere d’Arte” e che proprio per questo di loro purtroppo non si discute più….

 

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