Anna Bruno’s Blog
Un viaggio-opera d’arte: papa Francesco verso quel copricapo fatto di penne
- 29/07/2022
- Posted by: Anna Bruno
- Category: anthropology art

Scorrono le immagini di papa Francesco sui social media, scorrono e in molte lo si vede in sedia a rotelle, in altre indossa il simbolico copricapo apache, simbolo dell’aria, delle acque e della terra, simbolo della cura del Creato. Due immagini che si fanno segno o simbolo per richiamare all’attenzione, non gli occhi “virtuali” dei frequentatori dello smartphone, ma l’occhio dell’anima, perché si veda una volta per sempre che non si tratta di un viaggio qualunque, di un viaggio scelto a caso, questo di un papa costretto alla sedia a rotelle in Canada!
No, no, certo che non lo è!
Soprattutto non è un viaggio da far “consumare” attraverso due immagini che spesso, per questioni di velocità, vengono superficialmente percepite in derisione….Noooo! Si tratta invece di immagini da sentire dentro, nella parte più profonda del nostro ventre, in quelle viscere, dove a risiedere non è la morte nel senso più contemporaneo del termine, ma la vita.
Papa Francesco come S. Giovanni Paolo II, e la loro malattia …perché la malattia fisica, quanto psicologica, e anche collettiva, hanno bisogno della cura, e la cura, quella vera e unica, può arrivare solo dalla Madre Terra. E il luogo scelto non è un luogo a caso, ma il Lago Sant’Anna, meta storica di pellegrinaggi, luogo simbolo di incontro tra il cristianesimo europeo e il senso religioso della vita di quelle delle popolazioni native dell’area. Uno specchio d’acqua che tali popolazioni chiamano da sempre Wakamme, lago di Dio, o Manito Sahagahican, lago dello Spirito, un luogo sacro di “guarigione” e che forse per questo i cristiani vollero dedicare a Sant’Anna, la santa delle partorienti e perciò della cura, della guarigione e del ritorno alla vita.
E non un’immagine sola, un’immagine semplicemente mediatica di papa Francesco dunque, bensì due immagini metaforiche di richiesta di salvezza. La prima: il papa sulla sedia a rotelle, il papa che nella sua impotenza fisica il simbolo dell’impotenza universale dell’uomo che si abbandona alla benedizione per la guarigione, che da particolare si fa universale; e la seconda: il papa che indossa il copricapo apache, dove col termine apache non si intende ciò che abbiamo creduto per secoli “pagano o non-cristiano”, ma un termine che rimanda ad una scaturigine che risale alla Genesi di un popolo sacro perché da sempre legato alla Madre Terra. Un popolo di cui ci lasciamo raccontare da Geronimo, uno dei suoi capi più famosi, che fino alla fine, nel 1909, lo difese strenuamente. Un popolo, che, ahimé, aveva dovuto soffrire l’arroganza del “cristianissimo” popolo spagnolo prima e di quello americano poi. Racconta dunque Geronimo riassumendo:
Al principio di tutto, la terra era avvolta dalle tenebre e su di essa vi erano molti animali di cui alcuni erano orribili mostri senza nome. I rettili e gli uccelli costituivano una tribù a sé stante. Tutti gli animali erano dotati di ragione e avevano il dono della parola. Perciò, tenevano frequenti concili e discutevano sul modo di far andar avanti il mondo. Gli uccelli avrebbero voluto che si fosse creata la luce, ma le bestie terrestri più potenti non lo permettevano. Quanto all’uomo era l’animale terrestre più debole e le fiere e i mostri divoravano la sua prole, impedendogli di prosperare.
Un giorno gli uccelli dichiararono guerra alle bestie. Ma solo dopo L’aquila, che aveva insegnato al popolo pennuto come usare l’arco e le frecce, li guidò così saggiamente e valorosamente in questa lotta lunga e difficile lotta che ottennero la vittoria. I serpenti tuttavia erano talmente avveduti che non poterono essere sterminati tutti. Uno di essi si nascose in un dirupo perpendicolare e il suo occhio fu mutato in una pietra scintillante ed ancora oggi è visibile nel costone d’una montagna dell’Arizona. Quanto agli orsi, più gli uccelli ne uccidevano più questi prolificavano e si moltiplicavano. Inoltre, un mostro dalla grande astuzia risultò invulnerabile alle frecce, perciò dopo aver afferrato una pietra tonda e bianca con gli artigli gli volò sopra, lasciò la presa e la pietra cadde proprio sulla testa del mostro, uccidendolo di colpo. Quella pietra fu da allora considerata sacra.
Terminata la battaglia, benché restasse ancora un certo numero di bestie malvagie, gli uccelli chiesero la luce al Creatore e l’ottennero: una fortuna per gli uomini che a quel tempo eran ridotti a pochi superstiti.
Fra questi, c’era una donna che aveva avuto la benedizione di molti figli, ma le fiere glieli avevano divorati tutti e quando era riuscita ad eludere la loro caccia, ci pensò il dragone a rapirglieli.
Un giorno la donna ebbe un figlio da un uragano, ma proprio dal vortice di suo padre, la donna volle salvare il figlio. Così, scavò un profondo cunicolo nel suolo, vi depose il bambino, coprendo l’ingresso al cunicolo con una pietra. Sulla pietra accese un fuoco di bivacco che serviva sia a mascherare meglio l’ingresso sia a scaldare il piccolo nascosto nel cunicolo. Ogni giorno la donna scendeva nel cunicolo per nutrirlo, poi risaliva, rimetteva la pietra al suo posto e sulla pietra riaccendeva il fuoco.
Il dragone intanto venne a sapere che aveva avuto un figlio, e cominciò a reclamarlo alla madre che gli disse: “Non ho più figli; quelli che avevo me li hai divorati tutti “.
Una volta cresciuto il bambino ebbe voglia di giocare e correre all’aperto e la madre lo fece uscire un po’ ogni giorno. Ma presto il padre ne scoprì le tracce e, infuriato, si presentò alla madre, minacciando d’ucciderla se non gli avesse rivelato dov’era nascosto il piccolo. Ma ella non parlò e l’uragano se ne andò, non dopo aver promesso che sarebbe tornato presto, lasciando la poverina in preda a mille paure.
Poco tempo dopo, il bambino chiese di poter andare a caccia, ma la madre cercò di dissuaderlo dicendogli che i lupi, o i serpenti, o il dragone l’avrebbero potuto divorare; ma il bambino non si impaurì. ” Domani andrò ” disse.
Nel frattempo, suo zio, che a quel tempo era l’unico uomo vivente, gli aveva costruito un piccolo arco, un certo numero di frecce, e insieme andarono a caccia di daini sulla montagna. Il ragazzo uccise un maschio e lo zio gli insegnò a scuoiarlo e a farne bollire la carne. Avevano appena finito di cuocere i quarti posteriori dell’animale quando comparve il dragone che strappò il cibo al ragazzo dicendogli: ” Tu, piccolo, sei bello e grasso; cercavo proprio te. Quando avrò finito di mangiare questa selvaggina ti divorerò “.
Lo zio era paralizzato dalla paura, ma il ragazzo con fare spavaldo strappò la carne al dragone, dichiarando che non gli avrebbe lasciato mangiare né la carne del daino né sé stesso. Il dragone fece lo stesso, gli strappò nuovamente la carne dalle mani. A quel punto, il ragazzo lo sfidò con l’arco. Si sarebbero tirati, a turno, quattro frecce ciascuno, a una distanza di cento passi.
Collocatisi alla distanza convenuta, il dragone tese l’arco, che era fatto di un lungo tronco di pino, e gli scagliò la prima freccia. Ma proprio quando la freccia si staccò dall’arco, il ragazzo emise uno strano suono e la freccia balzò in aria, andando in mille schegge. Il ragazzo apparve seduto in cima ad un arcobaleno, da dove saltò nuovamente giù perché il dragone gli scagliasse la seconda freccia. Il giochetto fu ripetuto per quattro volte e infine toccò al ragazzo tirare. Il dragone non se ne preoccupò: potrai fare ben poco—disse—, il mio corpo è coperto di quattro corazze di scaglie cornee e le tue frecce non potranno trapassarne nemmeno una. Ma la prima freccia mandò a pezzi la prima corazza e dopo la terza, il cuore del dragone era allo scoperto e il ragazzo, con mira sicura, vi conficcò la sua ultima freccia. Con un ruggito spaventoso il dragone rotolò lungo il fianco della montagna, precipitando in quattro abissi e finì a pezzi nel fondo d’un canjon. In quel momento nubi tempestose spazzarono i fianchi della montagna, il cielo sprizzò lampi, i tuoni rombarono e venne giù il diluvio. Al termine del diluvio, il ragazzo e suo zio poterono vedere dall’alto, sul fondo del canjon, le membra sparse del mostro, le cui ossa biancheggiano ancora oggi nello stesso luogo.
” Il nome di questo ragazzo era Apache. Usen (il Creatore degli Apaches detto talvolta User) gli insegnò come preparare le erbe medicinali, come cacciare e come combattere. Egli fu il primo capo degli indiani a portare le penne d’aquila come simboli di giustizia, di saggezza e di potere. A lui e al suo popolo, quando fu numeroso, Usen dette dimora nelle terre dell’ovest”.
La religione degli invasori umani si reca dunque a chiedere scusa a quel popolo invaso che non ha mai creduto di possedere quella terra, ma che ne era grato per averla ricevuta come dimora e che per quel senso di gratitudine con quella terra era entrato in rapporto profondo, animico. Soprattutto, un popolo che conosceva bene i suoi limiti rispetto alla Natura e di essere il meno potente tra gli animali. E allora papa Francesco ritorna all’origine e chiede scusa per una specie di cui lui stesso fa parte e che ha perso il senso del limite e della sua finitudine, compiendo un viaggio che rimanda al mito, ad una conoscenza ancestrale, archetipica, in cui tra sapere e sapore non v’era differenza, e dove il capo della tribù umana si mimetizzava con le leggi della vita e della morte rigenerativa, coprendosi di penne d’aquila in segno di giustizia, saggezza e potere, un potere che lavorava per il bene, un potere che non distrugge ma che aiuta alla rigenerazione e avvia alla vita, un potere che guarda al bene personale quanto collettivo e… il bene è bello e il bello è verità… quello stesso καλὸς καὶ ἀγαθός (kalòs kai agathòs) del nostro mondo greco. E per rimanere ciò che è, quel bene deve necessariamente ogni volta saper attraversare il mea culpa e lasciarsi “morire” di una morte simbolica, rigenerante, per ritrovare il suo spirito vivo, quello spirito che è già dentro di sé, ma che spesso necessita di porsi di fronte alla sua perdita…. per ritrovarsi. E questo richiede afflizione (dolore per il riconoscimento), impegno, e coraggio di fronte alla propria verità. E il coraggio, si sa, per sua stessa etimologia, è qualcosa che ha più a che fare con il cuore che con la testa….
Le scuse allora di papa Francesco al popolo degli Apaches vogliono essere le scuse di quel popolo esportatore di una “verità costruita e assolutizzata” e, che, in nome di Cristo, proprio il Cristo ha tradito per primo, armando la sua mano e ponendosi in antitesi con quel modello tanto umano e dignitoso proposto proprio da Gesù, quando sollevava il proprio viso di fronte alla mano riversa dei padroni della Roma imperiale, porgendo loro l’altra guancia, per destabilizzarne la presa sicura e obbligarli a schiaffeggiare col palmo della mano. Il che voleva dire: davanti a Dio siamo tutti uguali e non siamo qui per distruggere ma per ri-creare, perché “creare è crearsi”, è rigenerazione….
Dunque grazie a papa Francesco per questa grande lezione di vita! E che il suo viaggio sia urlo ancora una volta degli ultimi e degli oppressi, contro tutti quei genocidi ancora oggi inferti a uomini, piante e animali sulla terra, ma a favore della vita e della “convivialità” dei diversi popoli di Dio e di questi con la Natura tutta. Che le armi tacciano e tacciano per sempre. Perché l’uomo torni a lottare sì, ma per la vita!
Raccontano i versetti biblici di uno dei profeti più amati da Gesù, il profeta Isaia:
Isaia 1:18
“Poi venite, e discutiamo” dice il Signore “anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come la neve; anche se fossero rossi come porpora, diventeranno come la lana”
Isaia 43:25
Io, io, sono colui che per amor di me stesso cancello le tue trasgressioni e non mi ricorderò più dei tuoi peccati
Isaia 55:7
Lasci l’empio la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri: si converta egli al Signore che avrà pietà di lui, al nostro Dio che non si stanca di perdonare.
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