Il Blog di Anna Bruno

Mi rinchiudo 

Dentro 

Una forbice 

Di espressività 

Che spunta 

Come un iceberg 

Dalla mia 

Intolleranza  (C. Q.) 

 

Sembra giungere da un suo spazio fiabesco dai contorni eterei, in cui il tempo è scandito da lentezza e circolarità, Claudia Quintieri. Un tempo in cui passato e futuro si coniugano nel presente, suo unico contenitore di essenza.

 

E il suo proporsi è già la sua opera d’arte.

 

Silente ma intensa, come la musa Polimnia, la nostra artista si sposta leggera col suo terzo occhio vigile sulle scene – vive o costruite – che le scorrono davanti.  Mai ripetitiva nel menzionare, difficilmente si scompone. Neanche in sede di montaggio, laboratorio di connessione tra l’esperienza e la memoria, la sua memoria, dove le immagini vengono assemblate col rigore del finto scompigliato, come pantomima e danza. E le immagini si lasciano andare e modellare, avvicendandosi e aggrovigliandosi, per divenire trama intessuta di memoria appunto e ricerca identitaria, nella tensione tra il sacro e il profano, la voluttà e l’ascetismo. E appaiono le immagini e si sfaldano, divengono altro, si distaccano da se stesse – come nell’opera Identity – e/o spariscono nel nulla pur restando, lei, la nostra artista, sempre fedele al proprio sé, un sé inquieto ed irrequieto: filo rosso che mette assieme le sue opere diverse, senza tuttavia appesantirle, né imprigionarle nell’hic et nunc.

E il suo sentire decide allora di sfumare i confini dello yin e dello yang fino a scioglierli definitivamente – come nell’ opera-video Il cervello tra le anime – perché il cervello resti nudo e si liberi della sua scatola cranica, comfort zone protettiva e al contempo ingabbiante, affinché l’anima si abbandoni alla destabilizzazione del nuovo che incalza.

E il nuovo è come il vento – come nell’opera Reclusione 2020 – che passando scuote le fronde del tiglio, simbolo di amore e di fecondità, dietro a quelle sbarre di decorazione architettonica della piana di un palazzo e che improvvisamente si mostrano all’infermità collettiva, del tempo del Covid, come simbolo di prigionia e soffocamento, sogno di libertà. Mentre al di là la vita continua, la natura si risveglia indisturbata dai rumori dell’animale uomo, lasciandogli solo il potere di accarezzarla con gli occhi dell’irraggiungibilità.

E le immagini riprese e poi accostate o sovrapposte, evanescenti e in continuo movimento alcune e fisse altre, corrono, e spesso metafisicamente, davanti all’occhio affascinato dell’osservatore, come in Poligonie,

dove viene ricacciato nella sensualità dei colori, dei segni archetipici e dei motivi ancestrali degli arabeschi incisi o musivi, per trascenderne l’essenza inscritta nella di lui anima. Perché entrare nell’opera della Quintieri è scegliere improvvisamente di tuffarsi nell’Anima: quella dell’artista, la propria e la collettiva, quella universale. Insomma, entrare nell’opera della Quintieri è perdersi per ritrovarsi, contemplando. Ancora, è un trapasso, che, dal caos accettato, accolto, respirato, dapprima conduce nel virgulto dell’intolleranza, nel suo bi-sogno di differenziazione per elevarsi alla luce sempre presente che filtra, per quanti vogliano coglierla e accoglierla, attraverso il velo diafano della speranza dell’identità. Un’identità risulta di meticciato e di opposti: uomo/donna, Oriente/Occidente, ego/spirito, moralismo/libertà, morte/rigenerazione. E poi la calma dei suoi paesaggi in lontananza, l’accoglienza della terra e dei suoi colori, i tumulti dell’acqua, dell’acqua marina – come in Duration 2003 – che si mostra come fosse un torrente in piena e che trascina a riva un tocco di legno reso con il peso di una piuma, che lo costringe ad una danza nell’attesa della sua trasformazione in un nuovo croce-Pinocchio, nel transeunte della vita.

Laddove di fronte allo scorrere automatizzato dell’umano, la Quintieri si cimenta nella provocazione come terapia d’urto. Perché il pensiero collettivo torni a porsi domande a favore della possibilità del superamento di pensieri ormai iconici e perciò indiscutibili. Ѐ il caso di Eternal Feelings, dove il suono dell’incontro chimico sembra profondere per celia da quegli scorci delle bianche, imponenti e moralistiche colonne dei templi degli antichi fasti e delle dinamiche facciate delle chiese seicentesche della Roma dei papi, in contrasto col buio onirico della notte che le mette in risalto come fossero cammei.

O ancora nella performance Venere Metropolitana, dove la presenza di un attore in seminudità si propone come la Venere botticelliana in mezzo al quotidiano della gente, spiazzando il fluire dei loro piedi in corsa e degli occhi attenti a monitorare il loro calpestare quel conosciuto sentiero, e qui costretti invece a fermarsi e finalmente a guardare e a trasmettere stupore alla propria interiorità, primo passo verso la conquista di nuove identità. Perché lo abbiamo inteso e assimilato: in tutta l’opera della Quintieri, ricerca e conquista dell’identità sono scaturigine del suo creare.

Ѐ nata e vive a Roma, Claudia Quintieri, dove si è laureata all’Università La Sapienza in Lettere e Filosofia con indirizzo di Storia dell’Arte Contemporanea. Artista, scrittrice e giornalista, la sua ricerca artistica si concentra soprattutto sulla videoart, le cui prime esperienze risalgono già al 2001.

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